Toscana Medica dedica due numeri all’ambizioso progetto di individuare, con uno sguardo d’insieme, i molteplici e complessi problemi sollevati dalla pandemia da Covid-19. Questioni scientifiche, sociali, politiche, economiche e professionali: tutti siamo partecipi di un evento immane, una prova sociale e scientifica che rimarrà nella storia. Avremo raggiunto lo scopo se, al termine di questo excursus, i colleghi avranno potuto riflettere più consapevolmente sui profondi e inarrestabili cambiamenti che la pandemia ha portato e porterà alla professione, tra innovazioni tecnologiche e trasformazioni sociali. Una sfida tra speranze nella scienza e timori per il futuro che investe il ruolo dei medici oggi.
Antonio Panti
Durante la pandemia da Sars-Cov-2 l’antica sofferenza dei medici ospedalieri per i carichi di lavoro e le sempre maggiori richieste assistenziali è diventata insostenibile.
Secondo lo studio ANAAO-ASSOMED, la stragrande maggioranza degli ospedalieri (75%) ritiene che il proprio lavoro non sia valorizzato a dovere. E questo indipendentemente dalla pandemia. Sempre secondo lo stesso studio, più della metà dei medici ospedalieri sta pensando di abbandonare l’ospedale nei prossimi due anni.
Matteo è un giovane medico iscritto al IV anno della scuola di specializzazione in Nefrologia. Frequenta da sei mesi il reparto di Dialisi, che è stato profondamente modificato dalla pandemia in corso. Gli viene offerta la possibilità di un “contratto Covid” della durata di 12 mesi per curare i malati. Lui non ci pensa due volte e accetta. È un bravissimo medico, entusiasta del suo lavoro, lo ama profondamente e pensa che sia l’occasione giusta per sentirsi utile mettendosi al servizio di chi in questo momento ha più bisogno. La sera torna a casa sfinito ma non si lamenta mai, neanche quando è costretto a fare turni di 16 ore.
Cinzia è un medico di 60 anni. Lavora in Medicina Interna con una specializzazione alle spalle in Pneumologia. Anche lei ama il suo lavoro, lo svolge da sempre con passione e non ha esitato a rimettersi in gioco buttandosi a capofitto nell’inferno Covid. La sua esperienza e il suo sapere sono preziosi per le nuove generazioni di medici e contribuiscono tutti i giorni, in modo sostanziale, a curare le persone malate.
I nostri ospedali sono pieni di medici come Matteo e Cinzia. Ma allora perché alcuni vogliono abbandonare gli ospedali? Perché allontanarsi dal luogo che li spinge a diventare medici? I motivi sono diversi. Cercheremo di analizzarne qualcuno.
Le radici affondano sicuramente nella fallimentare programmazione universitaria specialistica. I tagli pregressi e le imponenti carenze dei fabbisogni specialistici del decennio passato hanno determinato scadenti condizioni di lavoro, che mettono a rischio la qualità e la sicurezza delle cure erogate nelle strutture ospedaliere e nei servizi territoriali. A questo si aggiungono l’eccesso dei carichi di lavoro, legato a una carenza numerica persistente nonostante le recenti assunzioni (peraltro limitate e tutte in forme precarie), la rischiosità del lavoro, sotto il profilo sia biologico che medico-legale, e la sua cattiva organizzazione e, non ultimo, lo scarso coinvolgimento dei medici nelle decisioni che li riguardano. Tutte motivazioni riportate molte volte dai professionisti, anche nella survey ANAAO.
I medici ospedalieri si sentono schiacciati da una macchina che esige troppo e che non li ascolta, svalutati e frustrati da un’organizzazione del lavoro che non sembra avere tra le priorità i loro bisogni e le loro necessità, sia come lavoratori sia come persone.
Ma questo fenomeno non accade più soltanto in Italia: anche in Inghilterra, in Svezia e ora in Germania i medici lasciano sempre più gli ospedali. Forse anche lì, come in Italia, i professionisti sono spinti dall’istinto di sopravvivenza a lasciare il proprio posto di lavoro per cercare altrove un impiego più dignitoso e rispettoso del loro ruolo.
È ormai chiaro che il perseguimento della sola efficienza, misurata guardando ai bilanci e agli indicatori numerici e perseguita attraverso progressive riduzioni delle risorse disponibili, è un nemico del funzionamento del sistema nel suo insieme.
La politica ha la possibilità di intervenire sotto il profilo legislativo per cercare di invertire questa rotta e impedire la deriva del sistema, a partire da una nuova attribuzione giuridica che riconosca ai medici il peculiare ruolo di artefici dei modelli organizzativi e operativi.
È poi essenziale dare di nuovo motivazioni con adeguati riconoscimenti retributivi, sblocchi del turnover del personale, maggiore considerazione dei carichi di lavoro ma, soprattutto, ampia valorizzazione della dignità e del ruolo di chi cura all’interno del Sistema Sanitario Nazionale.
La strada è in salita, ma se non vogliamo perdere i nostri professionisti migliori e con essi la qualità delle cure erogate dobbiamo intervenire rapidamente e in modo efficace.
Cosa fanno ora Matteo e Cinzia? Dopo un anno di Covid, Matteo ha rinunciato a un’assunzione a tempo indeterminato. Lui è un idealista, un medico che non vuole rimanere intrappolato negli schemi. Si è iscritto alla specializzazione in Anestesia e Rianimazione perché vuole continuare a fare di più.
Cinzia invece è stata chiamata a dirigere un reparto di Medicina Sub-Intensiva non Covid. Il progetto è nuovo e ambizioso, ma lei è una che ama le sfide e che non si tira mai indietro. Dopotutto, è anche per questo che da ragazza ha scelto di diventare medico.