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Sono tante le storie di vita e professionali degli infermieri impegnati in prima linea sul fronte dell’emergenza Coronavirus. Dalla paura di contagiare i propri familiari al desiderio di salvare più vite possibili, fino alle spiegazioni e rassicurazioni da dare ai pazienti. Alcune di queste storie sono state raccolte grazie al Progetto Intensiva 2.0, che ha creato l’iniziativa “Scriviamo la storia”.
Il progetto punta a condividere pensieri ed emozioni degli operatori sanitari, creando al contempo un archivio di testimonianze. Le varie testimonianze sono consultabili sul sito https://vissuto.intensiva.it.
Come quella di una giovane infermiera in servizio in Toscana da poco più di tre mesi.
“Ho avuto la grande fortuna di iniziare a lavorare dopo pochi giorni dalla mia laurea in ospedale, prima in un reparto di chirurgia d’urgenza poi in medicina interna – racconta –. Al mondo del lavoro non ti prepara nessuno, soprattutto al forte impatto emotivo che affronterai nell’essere tu il ‘responsabile’. Ma col tempo ti abitui, impari a prendere le misure”.
La sua esperienza lavorativa, appena iniziata, viene travolta bruscamente a fine febbraio dall’emergenza Covid-19. “Fino a poco tempo prima ne sentivamo parlare ai telegiornali e continuavamo a vedere quelle immagini spettrali delle città cinesi semi deserte e di quei colleghi con i visi stanchi, segnati dalle mascherine, era tutto un po’ surreale e sembrava quasi impossibile che potesse arrivare fino a noi – prosegue –. E invece eccolo lì, con tutta la sua virulenza è arrivato. Anche noi, come i colleghi al Nord, in 24 ore ci siamo dovuti adattare e convertire in un vero e proprio reparto di malattie infettive, abbiamo dovuto imparare a vestirci e svestirci con quelle tute così comode che presto sono finite”.
Sono molti anche i suoi interrogativi, come quelli di tanti altri infermieri impegnati sul campo. “Basteranno i dispositivi a proteggerci? E se diventassi io il vettore di trasmissione? Il sentimento che fin da subito ci ha accomunati è stato l’istinto di protezione verso i propri cari – scrive l’infermiera –. Ma l’ansia si può tagliare col coltello: quando entri a lavorare percepisci la paura negli occhi dei colleghi, cerchi di sdrammatizzare e di smorzare le situazioni, ma non è sempre facile. Siamo professionisti, è vero, ma siamo anche persone, e la paura credo sia un sentimento più che lecito. Anche noi adesso abbiamo gli stessi visi dei colleghi cinesi, segnati dopo ore dentro quelle mascherine e visiere, che si spera ci proteggano. Le insicurezze di chi lavora da poco più di tre mesi, come me, vengono fuori moltiplicate all’ennesima potenza – continua –, perché a questo giro credo che nessuno ci possa preparare a tanto”.
Parole cariche di emozione quelle dell’infermiera. “E allora a casa ripensi ai tuoi pazienti, a quelli che forse non ce la faranno, a quelli che ti chiedono di figli e nipoti, a quelli che ti dicono ‘mi sento solo, non mi cerca nessuno’, e tu provi a spiegare loro che l’assenza dei parenti in reparto è pensata per la loro incolumità, provi a spiegare che i parenti sono informati sempre su tutto grazie ai nostri medici, ma non è facile, perché essere paziente ti aliena, essere paziente nei reparti ‘bolla’ non ti permette di capire cosa succede fuori da quella stanza. Vedi i tuoi compagni di stanza, con la tua stessa patologia, magari intubati proprio accanto a te, li vedi respirare male o andar via perché stanno meglio”.
Un racconto forte che comunque lascia spazio alla speranza.
“Non è facile, ma mai come adesso dobbiamo continuare a essere forti e professionali. Questa, per me giovane infermiera, per noi, è un’esperienza che ci segnerà per sempre. Ne usciremo più forti di prima, con qualche cicatrice in più nel cuore, ma ne usciremo. E – conclude – mai come oggi posso dire che, nonostante la paura, il mio resta il lavoro più bello del mondo”.
lisa@etaoin.it