Ettore Giustini Saffi, medico di medicina generale e membro della Commissione Terapeutica della Regione Toscana
In Italia la preferenza per i farmaci di marca rispetto agli equivalenti, o “generici”, come ancora spesso vengono chiamati – rimane tenacemente radicata, nonostante le rassicurazioni scientifiche e istituzionali. Un fenomeno culturale prima ancora che sanitario, che ha risvolti economici significativi sia per il Servizio Sanitario Nazionale che per i cittadini. L’Aifa ha recentemente stimato che nel nostro Paese spendiamo mediamente 1 miliardo di euro in più ogni anno per ottenere i farmaci “brandizzati”.
Il termine “generico” è stato sin dall’inizio infelice. Nella percezione collettiva ha evocato l’idea di un prodotto approssimativo, una copia imperfetta e anonima del farmaco originale. Non a caso oggi si parla di “medicinali equivalenti’”
Ma cosa significa, esattamente, “equivalente”? Il concetto si fonda sulla bioequivalenza, ovvero la dimostrazione che il generico e il farmaco di riferimento abbiano una biodisponibilità simile, tale da non produrre differenze clinicamente rilevanti. “Si confrontano parametri come la concentrazione massima nel sangue (Cmax), il tempo necessario a raggiungerla (tmax) e l’area sotto la curva di concentrazione plasmatica (AUC) – precisa Giustini – e si valuta se rientrano in un intervallo di tolleranza accettato a livello internazionale, generalmente compreso tra l’80% e il 125%.
Un intervallo che può sembrare ampio, ma che riflette la fisiologica variabilità biologica. Se somministro lo stesso farmaco a 10 persone diverse otterrò risposte leggermente differenti. Perfino due confezioni di Aulin® prese da lotti diversi possono dare valori AUC leggermente diversi. Questo non significa che siano inefficaci.
Allora perché tanti pazienti (e anche alcuni medici) restano scettici?
La ragione è duplice: da un lato c’è una sfiducia verso ciò che costa meno, dall’altro una diffusa ignoranza su cosa sia davvero un farmaco equivalente. Eppure l’equivalenza è sancita da studi rigorosi, validati dalle agenzie regolatorie europee e internazionali come EMA e FDA. Il dossier di bioequivalenza deve rispettare standard severi prima dell’autorizzazione al commercio.
Nonostante tutto, in farmacia il paziente continua a chiedere “quello di marca’” e spesso anche il medico preferisce prescriverlo. Questo accade soprattutto nei pazienti anziani, fragili o politrattati dove la continuità visiva e il riconoscimento della confezione giocano un ruolo fondamentale nella compliance.
Un ulteriore fattore di confusione è rappresentato dall’esistenza di molteplici equivalenti dello stesso principio attivo. Due generici possono essere entrambi bioequivalenti all’originatore, ma non tra loro. Se uno ha un’AUC del +15% e l’altro del -15%, rientrano nei limiti rispetto al brand, ma tra loro sono potenzialmente molto diversi. Il paziente può avvertire questa variazione, specie nei farmaci a basso indice terapeutico.
Ciò non significa che i generici siano inefficaci, ma che la sostituzione non dovrebbe essere fatta con leggerezza, soprattutto in terapie croniche. Per alcune categorie di farmaci esistono linee guida EMA specifiche, con intervalli di bioequivalenza più stringenti, proprio per proteggere il paziente da variazioni eccessive. Ma resta il fatto che la bioequivalenza è un concetto “medio”, statistico: garantisce un’efficacia comparabile nella popolazione, non nel singolo individuo.
La questione, quindi, non è se il generico funzioni, ma se sia comunicato correttamente. I farmaci equivalenti sono sicuri, efficaci, e controllati, ma abbiamo bisogno di una nuova narrazione. Più trasparenza, più educazione sanitaria e meno pregiudizi. Altrimenti continueremo a spendere di più per lo stesso principio attivo solo perché ha un nome più rassicurante. Una sfida culturale, prima ancora che scientifica.