Serena Checcacci, Medico chirurgo, specialista in malattie dell’apparato respiratorio, psicoterapeuta, Firenze
La divisione mente corpo non esiste, in questa ottica la dispnea è un modello di salute integrata.
Il sintomo varia notevolmente fra i pazienti in modo non lineare rispetto alla gravità di malattia.
L’attenzione, l’apprendimento, il tono dell’umore, la presenza di ansia, il contesto sociale in cui vive la persona influenzano la percezione della dispnea.
Parole chiave: dispnea, fattori psicologici, integrazione mente corpo, ansia, depressione
La divisione mente corpo non esiste. Ogni esperienza ha le dimensioni cognitiva, emozionale, sensoriale, comportamentale e relazionale.
Nelle vittime di trauma la comparsa a distanza di un tempo anche indefinitamente lungo di cardiopalmo può causare un flashback, facendo rivivere alla persona l’intera esperienza del trauma. I sintomi del panico sono fisici, cardiopalmo, dispnea, vertigini (ed esiste memoria delle sensazioni).
Quindi dall’emozione al corpo, dal corpo all’emozione. Dobbiamo parlare in questi termini perché non esistono ancora le parole nuove che si riferiscano a questa unità.
Anche a livello linguistico dovremmo superare la supremazia gerarchica del pensiero: passare da “io ho il mio corpo” a “io sono il mio corpo” e il mio corpo è in relazione.
La dispnea è un modello di salute integrata.
Sintomo sperimentato da milioni di persone nel mondo, affetti da malattie cardiache, respiratorie, neuromuscolari. Fortemente disturbante, anche quella indotta sperimentalmente si accompagna a una sensazione di morte imminente.
La sensazione del respiro deriva da un mix complesso di stimoli interocettivi ed esterocettivi di natura diversa, chimica, meccanica, termica.
Il passaggio dell’aria dalla bocca, dal naso e dalle alte vie respiratorie è comunicato alle aree cerebrali somatosensoriali attraverso termocettori e recettori tattili.
L’espansione e contrazione ritmiche del torace sono comunicate tramite recettori di stiramento localizzati nel diaframma, nella parete toracica e negli organi adiacenti. Queste informazioni fasiche arrivano ai nuclei del tronco encefalico, alla corteccia somatosensoriale e ad altre strutture come l’insula.
Le deviazioni nella concentrazione dei gas sono comunicate ai nuclei viscerosensitivi.
Contemporaneamente all’attivazione delle aree motorie si produce un feed back afferente alle aree sensoriali del cervello, le cosiddette “scariche corollarie”. Quindi la mente è informata del lavoro respiratorio. (figura 1)
L’atto del respirare è normalmente automatico, ma processi mediati dalla corteccia modificano il suo ritmo costantemente. I due controlli, automatico e volontario, sono altamente integrati e rispondono a esigenze specifiche come parlare, cantare, tossire, ridere.
Normalmente la respirazione è inconsapevole, ma gli umani hanno la capacità di prestare volontariamente attenzione al respiro e il respiro raggiunge la consapevolezza se necessita di attenzione. Questo secondo caso è diretto da un processo di gating che è alla base del monitoraggio delle funzioni fisiologiche e dell’adozione di comportamenti adattivi finalizzati alla sopravvivenza. (figura 2)
Il filtro protegge il sistema nervoso centrale dall’essere inondato da informazioni irrilevanti. Poiché il respiro è una funzione vitale gli stimoli respiratori diventano prioritari quando la respirazione si fa difficoltosa.
La maggior parte degli individui sani sperimenta la mancanza di respiro, l’affanno, durante uno sforzo, questa sensazione transitoria e reversibile è verosimilmente diversa da quella sperimentata dai pazienti dispnoici, che è associata al pericolo di morte, all’ansia e alla paura correlate alla malattia.
La teoria del mismatch afferente assume che una discrepanza fra i segnali efferenti ai muscoli respiratori e il feedback afferente sulla efficienza dei muscoli sia coinvolta nella percezione della dispnea. Il respiro è gratificante quando lo sforzo respiratorio è proporzionato alla ventilazione, quando ciò non avviene il respiro è non gratificante.
La dispnea può risultare da un processo che identifica come rilevanti informazioni afferenti su anomalie del respiro e le porta alla coscienza e/o da un processo emotivo che etichetta la sensazione attuale come spiacevole o pericolosa, cioè dispnea.
La percezione comporta il riconoscimento e l’interpretazione dello stimolo sensoriale e il significato che gli attribuiamo.
La dispnea varia notevolmente fra i pazienti e queste differenze non sono completamente spiegate dalla gravità di malattia.
D’altro canto nella sindrome da iperventilazione, caratterizzata da dispnea, non sono riscontrabili anomalie polmonari.
Questo suggerisce che la percezione della dispnea non è correlata in modo lineare con l’input sensoriale ma è modulata da fattori cognitivi e emotivi.
In uno studio sulla capacità di esercizio di pazienti affetti da BPCO la distrazione attraverso l’ascolto di musica portava a un aumento della durata e dell’intensità dell’esercizio rispetto alle condizioni di controllo e a una minore percezione dei sintomi.
La teoria di Pennebaker della competizione degli stimoli assume che gli stimoli ambientali e interni competono continuamente gli uni con gli altri per raggiungere la consapevolezza.
Le risorse attentive infatti sono limitate.
Il focus attentivo sulle sensazioni respiratorie può essere determinato da caratteristiche della sensazione per esempio una sensazione nuova con un processo bottom up e/o da caratteristiche della persona: aspettative, esperienze precedenti, credenze in merito alla sensazione, con un processo top down.
Quando i meccanismi automatici di regolazione del respiro falliscono il sistema attentivo viene ingaggiato e si mettono in atto comportamenti finalizzati a ripristinare la funzione respiratoria come slacciarsi gli abiti, aprire la finestra, chiedere aiuto.
Esiste una relazione reciproca fra ansia e respiro, da una parte la dispnea è un sintomo comune negli stati di ansia e di paura, d’altro canto fa da trigger per ansia e paura molto frequentemente, cosa che spiega perché i pazienti con malattie respiratorie sono ad alto rischio di sviluppare sintomi d’ansia.
La paura aumenta il drive respiratorio portando all’iperventilazione, così paura e dispnea possono autoalimentarsi in un circolo.
Il tono dell’umore influenza la percezione della dispnea: la visione di immagini affettivamente stimolanti impatta sulla percezione della dispnea da carico resistivo. I parametri respiratori non risultano modificati dalla visione di immagini negative o positive o neutre, ciò suggerisce che sia la dimensione affettiva della dispnea a risentire del tono dell’umore piuttosto che la sua intensità.
L’interazione fra lo stato emotivo e la percezione della dispnea si osserva nei pazienti con malattie respiratorie: coloro che hanno comorbidità con ansia o depressione percepiscono maggiormente il sintomo e hanno una prognosi peggiore, d’altro canto la dispnea stessa può essere causa di ansia e depressione che, a loro volta, hanno impatto sulla vita quotidiana, sull’aderenza alle terapie, sui tassi di ospedalizzazione e sulla mortalità. La prevalenza di ansia e depressione è maggiore nei pazienti asmatici e nei pazienti con BPCO rispetto alla popolazione generale nonostante che esse rimangano largamente sottodiagnosticate.
I processi di apprendimento hanno un impatto sulla percezione della dispnea: esperienze dispnoiche ripetute vengono memorizzate e formano uno schema sintomatico che fa sì che in futuro il sintomo approdi più facilmente alla consapevolezza.
Questo processo può aumentare la probabilità di errori percettivi. Il più piccolo cambiamento nello sforzo respiratorio può essere notato come un sintomo d’asma da un paziente “esperto” mentre lo stesso cambiamento può non raggiungere la consapevolezza in un paziente con diagnosi recente.
D’altro canto un paziente preoccupato rispetto al verificarsi di attacchi gravi può percepire erroneamente un distress respiratorio causato da iperventilazione come segno di attacco imminente.
Maggiore è l’attivazione di uno schema sintomatico minore sarà l’intensità dello stimolo necessaria perché questo raggiunga la coscienza.
Infine i sintomi possono presentarsi in assenza di un input come accade nell’effetto nocebo che può essere concettualizzato come un’illusione somatoviscerale. Respirare una miscela di aria arricchita di CO2 che causa dispnea associata a uno specifico odore condiziona la comparsa di dispnea con la respirazione di aria non addizionata se è presente lo stesso odore. Lo stesso meccanismo potrebbe giocare un ruolo nei pazienti con sintomi senza spiegazione medica come negli attacchi di panico e nella sindrome da iperventilazione.
Il contesto sociale influenza la percezione del sintomo: l’isolamento è un fattore aggravante, senza il supporto per stare attivo il paziente si decondiziona con conseguente declino funzionale e peggioramento dei sintomi, la restrizione delle interazioni sociali è associata ad aumento della dispnea, ridotta forza muscolare e capacità di esercizio in pazienti affetti da BPCO in ossigeno terapia.
Nella maggior parte dei casi la dispnea è sperimentata dai pazienti in contesti sociali, alla presenza di familiari, amici, colleghi, altri pazienti e caregiver. Questi soggetti diventano osservatori della dispnea di altri.
La semplice visione di persone dispnoiche induce dispnea negli osservatori in assenza di stimoli dispnoici, con emozioni negative associate.
La prevalenza di dispnea nei pazienti è associata a distress nei caregivers.
Per concludere, nei pazienti con BPCO il grado di dispnea correla con la mortalità meglio del FEV1, parametro spirometrico impiegato per la stadiazione della gravità di malattia.
Per me possiamo dedurre che anche se “solo” vogliamo occuparci, da medici, di obbiettivi così “corporei” come la sopravvivenza non possiamo trascurare o continuare a trascurare le dimensioni non polmonari della malattia e soprattutto che bisogna curare la persona non la malattia.
I pazienti non sono recipienti passivi per i consigli dell’esperto e nemmeno obbedienti esecutori delle prescrizioni. Migliorare l’integrazione fra la rappresentazione della malattia del paziente e quella del medico è una fattore importante nel successo di una terapia. Solo quando tale integrazione è presente si può costruire una vera alleanza terapeutica finalizzata ad affrontare i problemi biologici, psicologici e sociali associati alla malattia.