Patrizia Lo Sapio, Cardiologa
In italiano per indicare lo stato di sofferenza dell’organismo – di una parte o del tutto – a seguito di un danno e includendo la reazione che ne segue, usiamo un solo vocabolo: malattia. La lingua inglese è più ricca e precisa, disponendo di tre termini che hanno significati diversi, disease, che indica la malattia classificata e codificata dalla scienza medica sulla base di correlazioni o cause biologiche o psicologiche; sickness, che indica la malattia come percepita socialmente; illness, che indica la malattia soggettivamente percepita e vissuta, intesa come una realtà sociale e personale, come malessere. Quest’ultimo termine comprende una moltitudine di sfaccettature diverse, come il dover convivere con le terapie necessarie (e quindi con i disagi, i costi umani ed economici, gli effetti collaterali), in quanto inestricabilmente legate a linguaggio e significati. Ad esempio, una sostanza inerte con attese proprietà terapeutiche diventa farmaco solo quando c’è una persona che accettandone l’efficacia deglutisce o si inocula la sostanza. Ma comprende anche il complesso universo delle relazioni: affettive, lavorative, sociali, delle emozioni (paura/preoccupazione, vergogna, rabbia, umiliazione); della vera e propria salute mentale: ansia e depressione – per citare solo alcuni fattori.
La Medicina di oggi attribuisce grande rilievo alle evidenze legate alla dimensione delle prove di efficacia, ma la storia riferisce di altri casi in cui i medici si sono confrontati con il concetto di RCT (Randomized Controlled Trial) e hanno conquistato alcune innegabili certezze che però impiegarono molto tempo per essere accettate e apprezzate.
Esempio : anche l’osservazione di Ignatz Semmelweiss (1846) che la mortalità per febbre puerperale poteva essere ridotta con il semplice lavaggio delle mani con il cloruro di calce, basata sull’analisi quantitativa e sulla metodica osservazionale, fu ignorata e stentò ad essere accettata per le conseguenze che poteva generare sul ruolo e sul prestigio del medico, le cui mani erano viste come vettori di morte.
I cambiamenti nel comportamento sono sfide continue a livello individuale e istituzionale e la disponibilità al nuovo è condizionata da fattori di ordine diverso: la forza e l’appropriatezza dell’evidenza; la compatibilità con la concezione patofisiologica corrente; le condizioni di applicabilità relazionale al rapporto costi-benefici e alla allocazione delle risorse.
Gli esempi della storia confermano queste difficoltà nella traslazione delle conoscenze.
Ma anche la semplificazione di situazioni complesse, difficili da ricondurre all’oggettività di un trial, rappresentano un notevole rischio. La cura infatti va oltre la terapia e prevede anche altri tipi di intervento, che miscelato secondo situazioni oggettive, costituiscono ancora oggi l’arte di ogni medico: per secoli alla cura hanno contributo le parole, quelle dette e quelle non dette, quelle ascoltate e quelle lette.
Nella peculiarità della relazione, si muovono dinamiche profonde, ma molto spesso è proprio il medico ad avere lui stesso un effetto placebo.
Ma vediamo come è stato vissuto il concetto di malattia da alcuni dei più significativi autori dell’Ottocento
La malattia e il corpo nella concezione proustiana
Marcel Proust scrive:
“La natura sembra capace di dare soltanto malattie molto brevi; ma la medicina si è arrogata l’arte di prolungarle. I suoi rimedi, il sollievo che procurano, il malessere che la loro interruzione fa nascere, compongono un simulacro di malattia che l’abitudine del paziente finisce col rendere stabile, con lo stilizzare”
Ancora. “Quando dentro di noi si spalancano gli abissi della malattia e della morte e non abbiamo più nulla da opporre alla violenza con cui il mondo e il nostro stesso corpo ci si avventano contro, allora persino sostenere il pensiero dei nostri muscoli, il brivido che devasta le nostre ossa, persino stare immobili in quella che, di solito, riteniamo la semplice posizione negativa d’una cosa, esige – se vogliamo che la testa resti dritta e lo sguardo calmo – una carica di energia vitale e diviene oggetto d’una lotta estenuante.“
È una conoscenza terribile, meno per le sofferenze di cui è apportatrice che per la strana novità delle restrizioni definitive che impone alla nostra vita.
Ci si vede morire, in questi casi, non nell’istante preciso della morte, ma mesi o, a volte, anni prima, da quando essa è venuta, orribilmente, ad abitare in noi. La malata fa conoscenza con l’Estraneo che sente andare e venire nel suo cervello. Non lo conosce di vista, si capisce; ma dai rumori che regolarmente gli sente fare deduce le sue abitudini. Che sia un malfattore? Un mattino, non lo sente più. Se n’è andato.? Ah, se fosse per sempre! Ma la sera è già di ritorno. Quali saranno i suoi disegni?
Il medico curante, inquisito in proposito, risponde, come un’amante adorata, con giuramenti che un giorno vengono creduti, il giorno dopo messi in dubbio.
Proust prosegue: del resto, più che la parte dell’amante, il medico sostiene quella dei domestici sottoposti a interrogatorio. Essi non sono che dei terzi. Quella che incalziamo, che sospettiamo stia per tradirci non è altri che la vita e pur sentendo che non è più la stessa, noi crediamo ancora in lei o perlomeno rimaniamo nel dubbio fino al giorno in cui, da ultimo, ci abbandona.
Sempre Proust ci descrive con la malattia della nonna “l’idea del corpo”.
“Salii in casa e trovai la nonna più sofferente. Da qualche tempo, senza saper bene che cosa avesse, si lamentava della sua salute. Soltanto nella malattia ci rendiamo conto che non viviamo soli ma incatenati a un altro essere di una specie differente dal quale ci separano degli abissi, un essere che non ci conosce e dal quale è impossibile farci capire: il nostro corpo. Forse potremmo riuscire a rendere sensibile al proprio interesse personale, se non alla nostra sventura, qualche malvivente che incontrassimo per strada. Ma chiedere pietà al nostro corpo è come parlare a una piovra, per la quale le nostre parole non possono aver più senso del rumore dell’acqua e con la quale saremmo terrorizzati di essere condannati a vivere.
I malesseri della nonna sfuggivano spesso alla sua attenzione sempre rivolta a noi. Quando la facevano soffrire troppo allora per arrivare a guarirli, si sforzava invano di comprenderli. Se i fenomeni morbosi di cui era teatro il suo corpo restavano oscuri e inafferrabili alla sua mente, erano chiari e intelligibili a esseri appartenenti al loro stesso regno fisico, a coloro cui lo spirito umano ha finito per rivolgersi per capire ciò che gli dice il suo corpo, come dinanzi alle risposte di uno straniero cerchiamo qualcuno del suo stesso paese che possa farci da interprete. Essi possono parlare con il nostro corpo, dirci se la sua collera è grave o se si calmerà presto.”
Il tema del corpo e della sua vulnerabilità è stato rimesso al centro dalla pandemia che ci siamo appena lasciati alle spalle, in una forma non più estremamente personale ma visibilmente collettiva
In tempi tanto difficili il pensiero di Leopardi ci offre più di una chiave per comprendere la situazione del corpo umano di fronte all’esperienza del dolore e della malattia. Leopardi è, del resto, direttamente coinvolto nell’epidemia di colera del 1836-1837 a Napoli.
In particolar modo, nello Zibaldone tra il 1820 e il 1821 va costruendo una teoria della corporeità basata sulla stretta e insolubile dicotomia tra materia e spirito
Il corpo ha per Leopardi3 anzitutto un valore sociale, perché è ciò che si mostra di un uomo. Un uomo virtuoso non può che avere un corpo vigoroso e questo funge da deterrente contro ogni dispotismo.
Per il corpo vigoroso e sano l’esperienza della malattia è un’esperienza difficile da ammettere perché esprime la contraddittorietà della natura che, se da un lato vuole il vigore del corpo perché: “tutto potrà mettersi in dubbio fuori che la natura abbia sempre mirato al benessere materiale delle sue creature”, dall’altro genera le malattie.
“Si ammiri quanto la provvidenza e la benignità della natura per aver creati gli antidoti, per averli, diciamo così, posti allato ai veleni, per aver collocati i rimedi nel paese che produce la malattia. Ma perché creare i veleni? Perché ordinare le malattie?”
Il corpo, quindi come elemento naturale si mostra tanto per la sua vigorosità quanto per la sua contraddittorietà, che diventa in ultimo assoluta negatività quando viene a contatto con la civiltà: “È cosa indubitata che la civiltà ha introdotto nel genere umano mille spezie di morbi che prima di lei non si conoscevano, né senza lei sarebbero state”.
Leopardi conclude che l’esperienza della malattia costringe l’essere umano a fare particolare esperienza del proprio corpo, almeno sotto due aspetti: 1) come corpo malato; 2) come corpo imprigionato.
Il corpo malato è, inoltre, un corpo costretto, in un letto, in una casa, in una stanza di ospedale, una “dimensione carceraria” mal sopportata.
Thomas Mann nella nella “Montagna incantata” prende in esame lo statuto filosofico della malattia. È Castorp, il protagonista principale, che introduce il dibattito:
“Si poteva dire quello che si voleva… e qualcosa da dire c’era, ad esempio che la malattia costituiva una condizione esistenziale di ordine superiore e dunque aveva in sé un che di solenne…ma certo è che la malattia, enfatizza il corpo in modo eccessivo, per così dire rimanda e rinvia l’uomo al suo corpo in tutto e per tutto, tanto da nuocere alla sua dignità fino ad annientarla, in quanto, appunto, degrada l’uomo a semplice corpo. La malattia è perciò disumana”.
Il concetto del tempo
Cominciamo da dove ha avuto inizio la storia.
“Ma aspetta, aspetta, sei appena arrivato. Certo per noi che stiamo quassù, tre settimane non sono quasi niente, mentre per te che sei venuto in visita e comunque rimarrai solo per tre settimane sono un mucchio di tempo. Qui il tempo umano non fanno che bistrattarlo, è una cosa da non credere … Per loro tre settimane sono come un giorno. Qui le persone modificano i loro concetti”.
Siamo alle prime pagine della “Montagna incantata” e Mann fa subito entrare in scena il giovane Hans Castorp, appena giunto in visita al cugino Joachim Ziemssen. E’ quest’ultimo il malato che da qualche tempo soggiorna in sanatorio lassù a Davos, su di una montagna svizzera, dove il clima è favorevole alla cura dei malati di tubercolosi polmonare.
Sin dalle prime pagine veniamo messi di fronte ad una scoperta fondamentale: nel mondo del Sanatorio Internazionale di Berghof vige un tempo diverso da quello della pianura. Là, sulla “montagna magica”, il tempo è dilatato, tanto da divenire quasi immobile. Le unità di misura sono diverse, sono cambiate. I minuti, le ore e anche i giorni e le settimane divengono qualcosa di simile a vecchi arnesi di cui non si ha il coraggio di disfarsi, ma che non servono più e che si devono dimenticare se si vuole guarire.
Il mondo che Mann aveva colto quando, nel 1912, era andato a trovare sua moglie in un sanatorio di Davos, era ancora il Mondo di ieri, cioè il mondo che era esistito prima che la grande Guerra (1914-18) lo cancellasse. La scrittura della “Montagna magica” ebbe inizio nel 1912, ma dopo una lunga interruzione, fu completata tra il 1919 e il 1924 e dunque Mann era ben consapevole di parlare di qualcosa di “remoto” perché separato rispetto al presente da un solco profondo. Qualcosa che era mutato tanto da far presentire i segni di una fine ormai vicina.
Infatti, se ancora la tubercolosi polmonare poteva curarsi così, il contatto sociale stava rapidamente e profondamente mutando.
Sulla Montagna incantata. respiriamo l’aria di un mondo già cristallizzato, come nel ricordo di un passato irripetibile, un mondo in cui la cura differiva da quella odierna non soltanto per i mezzi tecnici impiegati, ma anche per il contesto socio-economico che lo condizionava.
Lo stesso Mann commenta il suo romanzo come “una serie di surrogato della vita che in un tempo relativamente breve estraniava del tutto i giovani dalla vita reale, attiva”. Quelle case di cura erano un fenomeno tipico del mondo di anteguerra, possibili soltanto in una forma di economia capitalistica ancora intatta. Soltanto in tali condizioni era possibile che i pazienti facessero quella vita a spese delle loro famiglie, per anni o magari per sempre. La Montagna Magica rappresenta il canto del cigno di quel modo di vita, di una forma di esistenza e he poi scomparve.
Oggi la terapia polmonare segue tutt’altre vie e la maggior parte dei sanatori svizzeri si è trasformata in alberghi sportivi.
Mann comunque viveva negli USA dove il “regime sanatoriale” non aveva mai avuto uno sviluppo pari a quello raggiunto in Europa. Dobbiamo altresì considerare che i sanatori europei continuarono ad essere meta di molti ammalti di tubercolosi anche nel periodo fra le due guerre (1928-1939) e poi nei primi anni del secondo dopoguerra, anche perché in alcuni paesi come in Italia, si erano sviluppate reti sanatoriali pubbliche in cui i degenti venivano curati a spese degli enti statali. Resta comunque la superba descrizione della vita sanatoriale, un perfetto ritratto di un ambiente e di un’epoca di cui sopravvive soltanto il ricordo (o meglio il racconto)
Nella Montagna magica siamo calati insieme ai personaggi che la animano non solo in un tempo, ma anche in un luogo particolare, una sorta di isola della maga Circe (a cui la paragona uno dei suoi personaggi, il letterato umanista italiano Settembrini” capace di catturare chi vi giunga con un incantesimo da cui non riuscirà più a liberarsi”.
Nella Montagna magica il tempo è condizionato dal luogo che scandisce i mesi e gli anni sulla durata, nei mesi negli anni, di una malattia, la tubercolosi polmonare e della sua cura prima dell’era antibiotica.
Dunque un tempo “sospeso” perché la vita è “sospesa”. Opera della malattia, ci domandiamo, oppure di quanto la medicina ha costruito attorno ad essa?
Il Malato è come “prestato “alla malattia per qualche ora al giorno o per qualche giorno in un mese. Può illudersi di essere come prima, ma “sa che il suo tempo non è più quello di prima”.
Anche ora nei pazienti in dialisi periodica, dopo un’iniziale rifiuto della terapia, viene trovata una qualche forma di adattamento: la vita deve fare i conti con l’inderogabile impegno del trattamento, persino le vacanze sono condizionate dalla disponibilità nel luogo prescelto di un centro dialisi. È una vita con un pesante obbligo in più ma è pur sempre vita.
Mann aveva colto questa straordinaria capacità di adattarsi alla propria malattia, di accettarne limitazioni che a un uomo sano apparirebbero intollerabili. La distorsione del tempo era primariamente opera di quel tipo di vita su di una lontana montagna che così divenne davvero “magica”, tanto da “incantare” chi vi restò troppo a lungo, dove “incantare” assume altresì il significato di una immobilità che può ben coinvolgere anche il tempo.
La malattia è un mondo a sé, ha a che fare con il mondo degli Inferi
Lo fa intendere a Castorp che dice: “ci sono voluti ben cinquemila piedi di arrampicata per arrivare qui da voi “. Settembrini, anche lui paziente del Berghof, gli risponde “Le è solo sembrato che così fosse! Siamo esseri del profondo abisso!”… “Un abisso in cui la nostra minima unità di tempo -spiega Settembrini – è il mese. Ma non basta, si è anche costretti ad obbedire a quel Satanasso di Radamanto, cioè al Direttore Beherens. E con tale appellativo quest’ultimo diviene, nelle parole di Settembrini, un demonio, ma soprattutto il giudice dei morti, come appunto, Radamanto.
Siamo dunque in un girone infernale di “morti viventi” in cui si vive una vita separata perché l’universo della malattia parla una lingua diversa da quella dell’universo dei sani. L’ospedale, qualsiasi ospedale, sequestra i pazienti e, varcata quella soglia in un senso o nell’altro, tutto cambia, si vedono cose diverse, si percepiscono sensazioni diverse, i pensieri vanno in direzioni diverse.
Anche oggi negli ospedali moderni i cui i ricoveri durano, nove volte su dieci, tempi brevi o brevissimi, l’alienazione minaccia i pazienti perché la tecnologia sovrasta l’umanità, la fretta cancella il colloquio.
Tutto questo, in verità, non segnerebbe una profonda differenza con la vita di “fuori” o di “prima”, che risponde agli stessi canoni, ma si scontra con un sentimento nuovo, quello messo in gioco dalla polarità guarigione/morte.
Un sentimento, un’angoscia che avrebbe bisogno di un contenitore e che, invece, è esasperato dal dominio della tecnologia e dalla povertà della comunicazione. “Velocità” è sinonimo di “efficienza” e efficienza di “probabilità di guarigione”.
E così l’ospedale guarisce di più, ma troppo spesso angoscia di più.
È forse per questo che la Montagna magica esercita ancora oggi un’”incantesimo” su chi la legga con l’esperienza della malattia.