di Laura Belloni
Medico Psichiatra, Psicoterapeuta
Direttore UOc Clinica delle Organizzazioni, AOU Careggi
Responsabile Centro di riferimento Regionale sulle Criticità Relazionali
Lo studio dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) ha evidenziato nei medici e negli infermieri dei tassi di sintomatologia ansiosa e depressiva significativamente più elevati rispetto alla popolazione generale. Si corre il rischio della semplificazione se si considera questo fenomeno solo come un problema individuale o clinico senza inquadrarlo come un epifenomeno di squilibri organizzativi, culturali, relazionali.
Proprio in tale ottica, Biancamaria Cavallini su Il Sole 24 Ore scrive che “È tempo di considerare la salute mentale di medici e infermieri come un indice di qualità delle cure” che tradotto significa non solo aiutare i professionisti a stare meglio ma anche riconoscere che la loro condizione psichica, emotiva, relazionale ha ripercussioni dirette sull’efficacia, sulla sicurezza, sulla qualità dell’assistenza. Di fatto, un professionista gravato, esausto, emotivamente prosciugato può commettere più errori, avere minore empatia, essere meno presente.
è evidente, quindi, che tutelare la salute mentale degli operatori sanitari diventa una responsabilità collettiva del sistema sanitario, delle organizzazioni, della società, oltre che un atto individuale. È parte della salute pubblica. Dal punto di vista biologico e psicologico, i professionisti sanitari sono esposti a stress cronico dovuti a turni prolungati, reperibilità, esposizione emotiva continua, contatto diretto con la sofferenza, con la malattia e con la perdita. Questi fattori implicano sia un carico di stress acuto (immediato) sia l’azione di fattori di stress cumulativo, che sovraccaricano le risorse personali e le capacità di recupero. Ma la salute mentale non si ferma qui: non è sufficiente che la persona non abbia sintomi, perché la “salute mentale” è anche la capacità di funzionare, di stabilire relazioni, di adattarsi al cambiamento.
In una prospettiva integrata, allora, la “salute mentale” dei professionisti sanitari appare come il crocevia tra condizioni personali, contesto lavorativo, supporti organizzativi, cultura professionale e relazioni interpersonali, ed è la visione che il Centro di riferimento Regionale sulle Criticità Relazionali (Crcr) della Regione Toscana, istituito con Dgr 356/2007 e ridefinito nel suo assetto organizzativo con Dgr 73/2018, persegue nello sviluppo delle sue diverse progettualità rivolte ai sistemi di cura. Solo curando i curanti, vale a dire riconoscendo a chi cura il diritto a essere curato, possiamo costruire una sanità che sia davvero dalla parte delle persone, operatori e pazienti insieme.
Ma come si cura chi cura? Il disagio e il malessere dei professionisti sanitari devono essere interpretati come il sintomo di una crisi sistemica che riguarda il modo in cui le organizzazioni di cura vengono pensate, gestite e vissute, attraverso una chiave di lettura che accolga il paradigma della complessità. Le organizzazioni sanitarie sono sistemi viventi, interdipendenti e dinamici, non macchine lineari da governare con logiche predominanti di efficienza o controllo. è lì dove la complessità emotiva, relazionale, etica, organizzativa dei contesti assistenziali ricondotta esclusivamente a procedure o indicatori di performance che si produce un duplice effetto: da un lato si svuota di senso l’agire professionale, dall’altro si genera un ambiente che non tollera la vulnerabilità e che quindi finisce per alimentare il malessere di chi vi opera.
La semplificazione e il riduzionismo, ovvero l’idea che bastino protocolli o algoritmi per gestire la cura finiscono così per negare la dimensione più umana, dialogica e incerta del lavoro sanitario. Ne derivano organizzazioni che chiedono agli operatori di “funzionare” invece che di “pensare”, di “resistere” invece che di “riflettere”, e che rischiano di non riconoscere realmente né il peso né il valore del lavoro emotivo implicito nell’assistere persone sofferenti, una discrepanza tra la complessità reale del vivere e il rischio di una semplificazione organizzativa dove trova modo di innestarsi l’usura psicologica, il senso di impotenza e la perdita di significato.
A ciò si aggiunge un altro elemento cruciale: la progressiva perdita di fiducia e di riferimenti istituzionali. Se i professionisti non sentono più di poter contare su istituzioni capaci di ascolto, di visione e di tutela, e quando percepiscono che la loro voce non incide sulle scelte organizzative, si genera una frattura di fiducia che amplifica il disagio. Questa crisi di fiducia non riguarda solo i professionisti, ma anche le comunità: cittadini e operatori possono condividere la sensazione di muoversi in un sistema che non protegge, non riconosce e non orienta. In altre parole, la fragilità istituzionale diventa essa stessa un fattore di stress organizzativo e sociale.
Accogliere il paradigma della complessità significa invece restituire senso e profondità all’agire di cura. Significa valorizzare la pluralità dei saperi, la corresponsabilità tra ruoli, l’ascolto reciproco e la riflessività organizzativa come condizione necessaria a contenere il rischio di una “iatrogenìa organizzativa”. Ma soprattutto implica riconoscere che la salute nasce da sistemi che accettano la loro vulnerabilità come parte della propria intelligenza.