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7 Ottobre 2025

Salute mentale. Non limitiamoci solo all’aspetto clinico, continuiamo ad applicare la legge 180 e a contribuire allo sviluppo delle comunità co-creando progetti psicosociali innovativi

Pino Pini, Psichiatra NHS North London Mental Health Trust, già psichiatra ASL di Firenze e Prato

Operando da oltre dieci anni nei servizi psichiatrici inglesi, dopo aver lavorato in Italia per vari decenni e sperimentato la transizione dall’ospedale psichiatrico al territorio, la lettura del Piano di Azione Nazionale sulla Salute Mentale 2025-2030 (PANSM) mi ha lasciato alquanto perplesso. La suddetta transizione dall’ospedale psichiatrico al territorio nello spirito della legge 180/1978 è stata un fatto di grande portata in quanto espressione del processo di deistituzionalizzazione sviluppatosi in diversi Paesi e volto a rinnovare la società nel suo complesso; nuovi diritti individuali e sociali si stavano affermando inducendo importanti cambiamenti negli stili di vita e nelle organizzazioni  politico sociali. Ma le molteplici esperienze sviluppate in Italia secondo i principi della legge 180 sembra non abbiano lasciato grandi segni in coloro che hanno sottoscritto tale documento. Ho avuto l’impressione infatti di leggere qualcosa in linea con gli attuali servizi di salute mentale inglesi che, nonostante alcuni progetti anglosassoni siano stati e continuino ad essere per noi di notevole ispirazione, purtroppo oggi appaiono versare in situazione molto critica e non sembra proprio rappresentino esempi da imitare.

Mi soffermerò su due aspetti che ritengo particolarmente problematici: l’eccessiva offerta/richiesta di diagnosi e cure (che chiamerò iperclinicizzazione) e l’annosa questione della cura-controllo.

Già negli anni 70, in era pre-180, si poneva il problema  delle persone ridotte a zombi per l’eccessivo ricorso agli  psicofarmaci (anche allora a disposizione in discreto numero) e si invocavano nuovi rimedi e non solo a livello biologico. Oggi è a disposizione un numero assai maggiore di quadri diagnostici e di trattamenti di vario tipo, psicofarmaci inclusi; questi ultimi hanno effetti collaterali minori dal punto di vista psicomotorio, ma sono abbastanza problematici ad altri livelli. Per giunta ridurre o sospendere gli psicofarmaci, quando li si assuma da molto tempo, spesso è difficile anche se fatto in modo graduale; possono emergere infatti condizioni simili a quelle che gli stessi farmaci avevano in qualche modo soppresso. Vi sono accese discussioni se si tratti di recidive della malattia o di sindromi da astinenza.

Nel giro degli ultimi decenni i quadri clinici sono più che triplicati e, nonostante si tratti di quadri per la massima parte solo descrittivi, vengono però propagandati e quindi percepiti e trattati come malattie vere e proprie con comprovata etiologia di tipo biologico. Purtroppo a fronte di una sempre maggiore focalizzazione della società (e dei servizi) sull’individuo malato, quasi in modo inversamente proporzionale, è caduta  l’attenzione verso il contesto in cui la persona vive.  Una volta entrati nel percorso clinico risulta non facile tornare indietro, anche e proprio perché il contesto ambientale è ritenuto oggi poco rilevante rispetto ai problemi individuali. Ne consegue che  le persone in difficoltà non hanno altri modi per farsi ascoltare se non quello di identificarsi con una o più delle molteplici malattie descritte dagli attuali sistemi nosografici DSM  e ICD fondati su basi scientifiche alquanto discutibili e ampiamente sponsorizzati delle multinazionali tecnologiche come quelle del farmaco.

Molti malesseri umani non sono da considerarsi malattia in senso stretto e il ricorso inappropriato a interventi clinici  può portare a scotomizzare problemi interpersonali, culturali e sociali che hanno a che fare  invece con altri aspetti della vita. Fra malattia e malessere esiste una vasta area grigia che sarebbe bene esplorare attraverso momenti che coinvolgano direttamente e in modo attivo il contesto di vita della persona come le reti familiari e sociali, includendo da vicino anche gli organi di governo della cittadinanza, operazione quest’ultima connotabile come prevenzione primaria e sviluppo di comunità.

Considerare le malattie mentali alla stregua delle malattie del corpo secondo alcuni contribuirebbe alla loro destigmatizzazione. Ma tale affermazione, se da una parte appare  piuttosto discutibile, dall’altra non fa che rinforzare il messaggio  della necessità di ricorrere quanto prima allo specialista per la diagnosi e la cura più appropriate. Il PANSM ruota intorno al modello di malattia secondo la ben nota visione psicopatologica statunitense del  DSM, diffusa capillarmente a livello globale fin dal 1980 proprio quando, e soprattutto in Italia, si era sviluppata una forte critica verso il modello di malattia e si cercavano modelli psicosociali territoriali innovativi. Il paradigma bio-psico-sociale purtroppo negli ultimi anni vede nei fatti una preponderante prevalenza dell’aspetto “bio” mentre gli aspetti “psico” e  “sociale” rimangono in coda, tanto qualcuno afferma che sarebbe più appropriato definirlo come  paradigma “bio-bio-bio”. In tale contenitore promiscuo di malattie più o meno convincenti si fa rientrare un po’ tutto ciò che la società non  sa o non vuole comprendere. Si tende inoltre a definire come specialistico/terapeutiche molte attività che dovrebbero invece far parte della vita quotidiana ordinaria e quindi delle comunità in cui le persone vivono.

In Inghilterra i servizi pubblici per la salute mentale sono  articolati in Aziende per la Salute Mentale (Mental Health Trust) separate dal resto dei servizi sanitari. Il vecchio ospedale psichiatrico è stato sostituito da piccoli reparti a varia intensità  di cura. I team ospedalieri sono autonomi rispetto a quelli territoriali. I team per la crisi, compreso il Place of Safety (il luogo dove i pazienti vengono condotti direttamente dalla polizia)  sono per lo più annessi a tali reparti, accanto ai quali si trovano in genere anche i reparti forensi. In tali ambienti può venire collocata  anche la maggior parte del personale apicale manageriale, amministrativo e clinico dell’Azienda. 

La gran parte dei ricoveri nei reparti psichiatrici è coercitiva. Gli interventi obbligatori sono 8 volte più frequenti che in Italia – Mental Health Europe 2018 -. La popolazione immigrata è  sottoposta a misure obbligatorie molto più frequentemente rispetto a quella autoctona (5 volte tanto per i ricoveri ospedalieri e 10 volte tanto per i trattamenti domiciliari obbligatori –Mind/ROTA 2022-). Tale grande discrepanza fra la popolazione immigrata e quella autoctona fa veramente pensare se la salute mentale non continui a essere inappropriatamente usata in alcune situazioni come strumento di controllo sociale.  Si esce dall’ospedale molto spesso con un farmaco depot e in regime di somministrazione obbligata a domicilio (Community Treatment Order), pena nuovo ricovero ospedaliero con procedura abbreviata. 

Chiara quindi la prevalente visione clinica, ospedalocentrica e coercitiva dei servizi inglesi imperniata  sul modello di malattia. Anche i centri di salute mentale territoriali risentono di tale impostazione e stentano a sviluppare una cultura più diversificata rispetto a quella clinica. Perfino le associazioni di salute mentale, un tempo autonome e critiche rispetto ai servizi, tendono oggi ad assoggettarsi alla cultura clinica imperante verosimilmente per questioni  economiche di sopravvivenza.

Gli interventi obbligatori in Inghilterra continuano ad aumentare di anno in anno. E’ verosimile che ciò sia attribuibile proprio alla sopracitata odierna convinzione secondo cui la maggioranza dei problemi mentali  dipende da malattia. Questo implica necessariamente la sollecita ricerca di una diagnosi appropriata e del relativo trattamento facilmente individuabili all’interno delle odierne classificazioni  nosografiche e del vasto armamentario dei rimedi più diversi a disposizione. Diagnosi e trattamenti che, se non accettati, potranno comunque venire imposti anche in modo coercitivo (i pazienti ospedalizzati sottoposti a ricovero obbligatorio sono chiamati “detenuti” e in effetti molti reparti assomigliano più a prigioni che ad ambienti di cura).

E’ sconcertante constatare la facilità con cui viene indirizzata una persona verso un percorso obbligatorio in ospedale quasi si trattasse di un intervento ordinario come qualsiasi altro. Il Mental Health Act (la legge nazionale inglese per la salute mentale) è un documento corposo di molte centinaia di pagine che descrive in modo minuzioso le innumerevoli condizioni in cui l’operatore si viene a trovare di fronte alla persona in crisi per sospetta malattia mentale e le azioni da eseguire. Ma accanto agli strumenti coercitivi la legge prevede anche momenti per la protezione dei diritti individuali come i tribunali speciali per la salute mentale e gli advocates indipendenti cui la persona si può appellare. Tali momenti, che richiedono molte risorse in termini di tempo lavorativo (per incontri, relazioni dettagliate, etc.), sono volti a discutere davanti al giudice l’intervento coercitivo a cui è sottoposta una persona quando questa lo richieda tramite advocate. Nella massima  parte dei casi il tribunale  conferma la correttezza dell’intervento obbligatorio. C’è da chiedersi allora se, invece di costruire antidoti giuridici complessi e dispendiosi volti a giustificare un sistema palesemente orientato verso  la cura-controllo, non sarebbe meglio sviluppare un sistema  dove cura e controllo fossero invece separati!  Ma ancora una volta il problema, da una parte, sta nella convinzione che gli attuali strumenti diagnostici e terapeutici siano in grado di far fronte da soli ad un numero sempre più vasto di situazioni di sofferenza e, dall’altra, nel disimpegno crescente della società nello sviluppare momenti psicosociali all’interno delle comunità per rispondere a situazioni che dovrebbero essere affrontate senza ricorrere, non di rado ipocritamente, a interventi sanitari specialistici inappropriati.

Da quanto sopra detto sarebbe lecito pensare che al giorno d’oggi un movimento di transizione dal momento clinico a quello comunitario sembrerebbe più che mai opportuno per contrastare la tendenza all’aumento delle cure coercitive e alla iperclinicizazione diffusa; la prima infrange  diritti personali fondamentali e la seconda tende a scotomizzare aspetti importanti personali, interpersonali  e di organizzazione politico-sociale. Aspetti questi ultimi che occorre rinforzare per bilanciare opportunamente il cosiddetto sapere globale, legato alle nuove e sempre più dilaganti tecnologie, con il cosiddetto sapere locale legato invece ai rapporti personali diretti e alla cultura autoctona di ciascuna comunità. Il problema è che di fronte alla pervasività del sapere globale, sembra che le comunità  stiano perdendo sempre più la loro cultura specifica che è parte fondamentale della loro identità e resilienza.

Si tratta quindi di contribuire alla costruzione/ricostruzione del tessuto delle comunità. Ciò si può attuare attraverso una collaborazione alla pari fra le varie organizzazioni territoriali per la realizzazione di progetti innovativi concordati con i soggetti di ciascun territorio, servizi inclusi. Gli operatori dei servizi della salute mentale in tale contesto eviteranno di esportare nella comunità il loro armamentario clinico; dovranno invece, per parte del loro tempo lavorativo, uscire dai setting diagnostici e terapeutici ordinari e collaborare allo sviluppo di progetti condivisi con i vari soggetti della comunità a partire dagli utenti e familiari.  Ciò  potrà consentire di comprendere e trattare in modo più appropriato tutta una serie di malesseri generici prima che si strutturino come malattia e di decostruire, aprendo spazi nuovi di ricerca comune, modalità dimostratesi inefficaci.

Quanto ai pazienti con problemi di salute mentale autori di reato, in linea con la legge 180 che sancisce chiaramente la separazione della cura dal controllo (in caso di richiesta di accertamento e/o trattamento obbligatorio allo psichiatra non si richiede più il giudizio di “pericolosità a sé e agli altri”, ma solo la necessità di cure), verosimilmente sarebbe altrettanto logico e opportuno togliere allo psichiatra il compito di valutare la pericolosità sociale di un soggetto autore di reato. Tutti i cittadini, malati e non, dovrebbero essere trattati ugualmente di fronte alla legge. Rimane ovvio che nel caso siano presenti questioni fisiche e mentali le opportune cure dovranno essere garantite.

Speriamo che le esperienze italiane nello spirito della legge 180  continuino a svilupparsi e a favorire un appropriato bilanciamento fra interventi clinici e psicosociali e a porsi quindi come protezione di fronte ai pericoli di iperclinicizzazione e dell’uso della salute mentale come strumento di controllo sociale.

pn.pini@gmail.com

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Salute mentale. Non limitiamoci solo all’aspetto clinico, continuiamo ad applicare la legge 180 e a contribuire allo sviluppo delle comunità co-creando progetti psicosociali innovativi

Pino Pini

7 Ottobre 2025

Pino Pini, Psichiatra NHS North London Mental Health Trust, già psichiatra ASL di Firenze e Prato

Operando da oltre dieci anni nei servizi psichiatrici inglesi, dopo aver lavorato in Italia per vari decenni e sperimentato la transizione dall’ospedale psichiatrico al territorio, la lettura del Piano di Azione Nazionale sulla Salute Mentale 2025-2030 (PANSM) mi ha lasciato alquanto perplesso. La suddetta transizione dall’ospedale psichiatrico al territorio nello spirito della legge 180/1978 è stata un fatto di grande portata in quanto espressione del processo di deistituzionalizzazione sviluppatosi in diversi Paesi e volto a rinnovare la società nel suo complesso; nuovi diritti individuali e sociali si stavano affermando inducendo importanti cambiamenti negli stili di vita e nelle organizzazioni  politico sociali. Ma le molteplici esperienze sviluppate in Italia secondo i principi della legge 180 sembra non abbiano lasciato grandi segni in coloro che hanno sottoscritto tale documento. Ho avuto l’impressione infatti di leggere qualcosa in linea con gli attuali servizi di salute mentale inglesi che, nonostante alcuni progetti anglosassoni siano stati e continuino ad essere per noi di notevole ispirazione, purtroppo oggi appaiono versare in situazione molto critica e non sembra proprio rappresentino esempi da imitare.

Mi soffermerò su due aspetti che ritengo particolarmente problematici: l’eccessiva offerta/richiesta di diagnosi e cure (che chiamerò iperclinicizzazione) e l’annosa questione della cura-controllo.

Già negli anni 70, in era pre-180, si poneva il problema  delle persone ridotte a zombi per l’eccessivo ricorso agli  psicofarmaci (anche allora a disposizione in discreto numero) e si invocavano nuovi rimedi e non solo a livello biologico. Oggi è a disposizione un numero assai maggiore di quadri diagnostici e di trattamenti di vario tipo, psicofarmaci inclusi; questi ultimi hanno effetti collaterali minori dal punto di vista psicomotorio, ma sono abbastanza problematici ad altri livelli. Per giunta ridurre o sospendere gli psicofarmaci, quando li si assuma da molto tempo, spesso è difficile anche se fatto in modo graduale; possono emergere infatti condizioni simili a quelle che gli stessi farmaci avevano in qualche modo soppresso. Vi sono accese discussioni se si tratti di recidive della malattia o di sindromi da astinenza.

Nel giro degli ultimi decenni i quadri clinici sono più che triplicati e, nonostante si tratti di quadri per la massima parte solo descrittivi, vengono però propagandati e quindi percepiti e trattati come malattie vere e proprie con comprovata etiologia di tipo biologico. Purtroppo a fronte di una sempre maggiore focalizzazione della società (e dei servizi) sull’individuo malato, quasi in modo inversamente proporzionale, è caduta  l’attenzione verso il contesto in cui la persona vive.  Una volta entrati nel percorso clinico risulta non facile tornare indietro, anche e proprio perché il contesto ambientale è ritenuto oggi poco rilevante rispetto ai problemi individuali. Ne consegue che  le persone in difficoltà non hanno altri modi per farsi ascoltare se non quello di identificarsi con una o più delle molteplici malattie descritte dagli attuali sistemi nosografici DSM  e ICD fondati su basi scientifiche alquanto discutibili e ampiamente sponsorizzati delle multinazionali tecnologiche come quelle del farmaco.

Molti malesseri umani non sono da considerarsi malattia in senso stretto e il ricorso inappropriato a interventi clinici  può portare a scotomizzare problemi interpersonali, culturali e sociali che hanno a che fare  invece con altri aspetti della vita. Fra malattia e malessere esiste una vasta area grigia che sarebbe bene esplorare attraverso momenti che coinvolgano direttamente e in modo attivo il contesto di vita della persona come le reti familiari e sociali, includendo da vicino anche gli organi di governo della cittadinanza, operazione quest’ultima connotabile come prevenzione primaria e sviluppo di comunità.

Considerare le malattie mentali alla stregua delle malattie del corpo secondo alcuni contribuirebbe alla loro destigmatizzazione. Ma tale affermazione, se da una parte appare  piuttosto discutibile, dall’altra non fa che rinforzare il messaggio  della necessità di ricorrere quanto prima allo specialista per la diagnosi e la cura più appropriate. Il PANSM ruota intorno al modello di malattia secondo la ben nota visione psicopatologica statunitense del  DSM, diffusa capillarmente a livello globale fin dal 1980 proprio quando, e soprattutto in Italia, si era sviluppata una forte critica verso il modello di malattia e si cercavano modelli psicosociali territoriali innovativi. Il paradigma bio-psico-sociale purtroppo negli ultimi anni vede nei fatti una preponderante prevalenza dell’aspetto “bio” mentre gli aspetti “psico” e  “sociale” rimangono in coda, tanto qualcuno afferma che sarebbe più appropriato definirlo come  paradigma "bio-bio-bio". In tale contenitore promiscuo di malattie più o meno convincenti si fa rientrare un po’ tutto ciò che la società non  sa o non vuole comprendere. Si tende inoltre a definire come specialistico/terapeutiche molte attività che dovrebbero invece far parte della vita quotidiana ordinaria e quindi delle comunità in cui le persone vivono.

In Inghilterra i servizi pubblici per la salute mentale sono  articolati in Aziende per la Salute Mentale (Mental Health Trust) separate dal resto dei servizi sanitari. Il vecchio ospedale psichiatrico è stato sostituito da piccoli reparti a varia intensità  di cura. I team ospedalieri sono autonomi rispetto a quelli territoriali. I team per la crisi, compreso il Place of Safety (il luogo dove i pazienti vengono condotti direttamente dalla polizia)  sono per lo più annessi a tali reparti, accanto ai quali si trovano in genere anche i reparti forensi. In tali ambienti può venire collocata  anche la maggior parte del personale apicale manageriale, amministrativo e clinico dell’Azienda. 

La gran parte dei ricoveri nei reparti psichiatrici è coercitiva. Gli interventi obbligatori sono 8 volte più frequenti che in Italia - Mental Health Europe 2018 -. La popolazione immigrata è  sottoposta a misure obbligatorie molto più frequentemente rispetto a quella autoctona (5 volte tanto per i ricoveri ospedalieri e 10 volte tanto per i trattamenti domiciliari obbligatori -Mind/ROTA 2022-). Tale grande discrepanza fra la popolazione immigrata e quella autoctona fa veramente pensare se la salute mentale non continui a essere inappropriatamente usata in alcune situazioni come strumento di controllo sociale.  Si esce dall’ospedale molto spesso con un farmaco depot e in regime di somministrazione obbligata a domicilio (Community Treatment Order), pena nuovo ricovero ospedaliero con procedura abbreviata. 

Chiara quindi la prevalente visione clinica, ospedalocentrica e coercitiva dei servizi inglesi imperniata  sul modello di malattia. Anche i centri di salute mentale territoriali risentono di tale impostazione e stentano a sviluppare una cultura più diversificata rispetto a quella clinica. Perfino le associazioni di salute mentale, un tempo autonome e critiche rispetto ai servizi, tendono oggi ad assoggettarsi alla cultura clinica imperante verosimilmente per questioni  economiche di sopravvivenza.

Gli interventi obbligatori in Inghilterra continuano ad aumentare di anno in anno. E’ verosimile che ciò sia attribuibile proprio alla sopracitata odierna convinzione secondo cui la maggioranza dei problemi mentali  dipende da malattia. Questo implica necessariamente la sollecita ricerca di una diagnosi appropriata e del relativo trattamento facilmente individuabili all’interno delle odierne classificazioni  nosografiche e del vasto armamentario dei rimedi più diversi a disposizione. Diagnosi e trattamenti che, se non accettati, potranno comunque venire imposti anche in modo coercitivo (i pazienti ospedalizzati sottoposti a ricovero obbligatorio sono chiamati “detenuti” e in effetti molti reparti assomigliano più a prigioni che ad ambienti di cura).

E’ sconcertante constatare la facilità con cui viene indirizzata una persona verso un percorso obbligatorio in ospedale quasi si trattasse di un intervento ordinario come qualsiasi altro. Il Mental Health Act (la legge nazionale inglese per la salute mentale) è un documento corposo di molte centinaia di pagine che descrive in modo minuzioso le innumerevoli condizioni in cui l’operatore si viene a trovare di fronte alla persona in crisi per sospetta malattia mentale e le azioni da eseguire. Ma accanto agli strumenti coercitivi la legge prevede anche momenti per la protezione dei diritti individuali come i tribunali speciali per la salute mentale e gli advocates indipendenti cui la persona si può appellare. Tali momenti, che richiedono molte risorse in termini di tempo lavorativo (per incontri, relazioni dettagliate, etc.), sono volti a discutere davanti al giudice l’intervento coercitivo a cui è sottoposta una persona quando questa lo richieda tramite advocate. Nella massima  parte dei casi il tribunale  conferma la correttezza dell’intervento obbligatorio. C’è da chiedersi allora se, invece di costruire antidoti giuridici complessi e dispendiosi volti a giustificare un sistema palesemente orientato verso  la cura-controllo, non sarebbe meglio sviluppare un sistema  dove cura e controllo fossero invece separati!  Ma ancora una volta il problema, da una parte, sta nella convinzione che gli attuali strumenti diagnostici e terapeutici siano in grado di far fronte da soli ad un numero sempre più vasto di situazioni di sofferenza e, dall’altra, nel disimpegno crescente della società nello sviluppare momenti psicosociali all’interno delle comunità per rispondere a situazioni che dovrebbero essere affrontate senza ricorrere, non di rado ipocritamente, a interventi sanitari specialistici inappropriati.

Da quanto sopra detto sarebbe lecito pensare che al giorno d’oggi un movimento di transizione dal momento clinico a quello comunitario sembrerebbe più che mai opportuno per contrastare la tendenza all’aumento delle cure coercitive e alla iperclinicizazione diffusa; la prima infrange  diritti personali fondamentali e la seconda tende a scotomizzare aspetti importanti personali, interpersonali  e di organizzazione politico-sociale. Aspetti questi ultimi che occorre rinforzare per bilanciare opportunamente il cosiddetto sapere globale, legato alle nuove e sempre più dilaganti tecnologie, con il cosiddetto sapere locale legato invece ai rapporti personali diretti e alla cultura autoctona di ciascuna comunità. Il problema è che di fronte alla pervasività del sapere globale, sembra che le comunità  stiano perdendo sempre più la loro cultura specifica che è parte fondamentale della loro identità e resilienza.

Si tratta quindi di contribuire alla costruzione/ricostruzione del tessuto delle comunità. Ciò si può attuare attraverso una collaborazione alla pari fra le varie organizzazioni territoriali per la realizzazione di progetti innovativi concordati con i soggetti di ciascun territorio, servizi inclusi. Gli operatori dei servizi della salute mentale in tale contesto eviteranno di esportare nella comunità il loro armamentario clinico; dovranno invece, per parte del loro tempo lavorativo, uscire dai setting diagnostici e terapeutici ordinari e collaborare allo sviluppo di progetti condivisi con i vari soggetti della comunità a partire dagli utenti e familiari.  Ciò  potrà consentire di comprendere e trattare in modo più appropriato tutta una serie di malesseri generici prima che si strutturino come malattia e di decostruire, aprendo spazi nuovi di ricerca comune, modalità dimostratesi inefficaci.

Quanto ai pazienti con problemi di salute mentale autori di reato, in linea con la legge 180 che sancisce chiaramente la separazione della cura dal controllo (in caso di richiesta di accertamento e/o trattamento obbligatorio allo psichiatra non si richiede più il giudizio di "pericolosità a sé e agli altri", ma solo la necessità di cure), verosimilmente sarebbe altrettanto logico e opportuno togliere allo psichiatra il compito di valutare la pericolosità sociale di un soggetto autore di reato. Tutti i cittadini, malati e non, dovrebbero essere trattati ugualmente di fronte alla legge. Rimane ovvio che nel caso siano presenti questioni fisiche e mentali le opportune cure dovranno essere garantite.

Speriamo che le esperienze italiane nello spirito della legge 180  continuino a svilupparsi e a favorire un appropriato bilanciamento fra interventi clinici e psicosociali e a porsi quindi come protezione di fronte ai pericoli di iperclinicizzazione e dell’uso della salute mentale come strumento di controllo sociale.

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