Pietro Dattolo, presidente dell’Ordine dei Medici, Chirurghi e Odontoiatri di Firenze
Il nostro sistema sanitario nazionale è ormai da anni alle prese con un fenomeno che mina dall’interno, causando dimissioni volontarie di medici, infermieri e operatori, e incidendo direttamente sulla fiducia e la salute dei pazienti. Stress costante, turni massacranti, paghe troppo basse e il rischio di costanti aggressioni sono tutti fattori che concorrono al burnout di chi lavora nel settore.
Il fenomeno riguarda il sistema in generale, ma si fa sentire maggiormente in alcune specialità. Il Pronto Soccorso, in questo senso, è l’esempio emblematico. Quest’anno non sono state assegnate più del 70% delle borse di specializzazione finanziate: i giovani non vogliono più fare la medicina d’urgenza, perché comprendono che il sacrificio richiesto è sproporzionato rispetto alla soddisfazione raccolta, sia professionale che umana.
Più in generale, assistiamo ad una progressiva perdita di appeal da parte della professione medica e, insieme a questo, ad una carenza di rispetto verso una figura un tempo considerata autorevole. Oggi un gran numero di pazienti si reca negli ambulatori, o negli ospedali, con auto-diagnosi fatte leggendo su Google oppure interrogando l’intelligenza artificiale. E pretende che il medico segua le terapie che suggeriscono, spesso con modalità aggressive. La violenza diventa sia psicologica che fisica. Un clima di minacce costanti – penso a quello che accade ogni giorno in corsia agli infermieri e agli Oss – che, certo, non incentiva l’accesso alle professioni sanitarie.
Per tutti questi motivi serve un intervento, e serve subito. Tuttavia le risorse economiche necessarie non vengono messe a disposizione, e questo spinge il sistema verso la privatizzazione. Una realtà tangibile, che fa male, perché contraria ai principi dell’universalismo e dell’eguaglianza nelle cure. Andando in questa direzione, è facile comprendere come queste ultime diventino appannaggio dei più ricchi.
Oggi il Servizio Sanitario Nazionale è gravemente sottofinanziato: rispetto al Pil, annuale, incide soltanto per il 6%. Nel frattempo registriamo gravissime carenze d’organico, con medici che vanno in pensione e non vengono sostituiti con nuove assunzioni.
Accanto a tutto questo, si pone con sempre più preoccupazione la questione femminile: oggi oltre il 50% dei nostri medici sono donne, eppure il sistema è pensato secondo logiche lavorative prettamente improntate ai bisogni maschili, il che denuncia limiti importanti anche da parte dei sindacati di categoria.
Stringendo l’inquadratura sulla Toscana, le cose vanno meglio rispetto alla media nazionale. Qui la sanità territoriale e il sistema pubblico funzionano meglio, anche grazie alla buona volontà di tutti i soggetti coinvolti. Ma non possiamo dire di essere un’isola felice: la nostra regione riflette il clima di sofferenza globale.
Non aiuta – lo affermo da tempo – nemmeno il fatto di avere 21 sistemi sanitari regionali differenti. Ne servirebbe uno solo, capace di fornire uniformità. Oggi, invece, le differenze tra nord e sud sono sempre più marcate, e generano sperequazioni costanti.
Alle nuove e necessarie assunzioni, adesso, devono accompagnarsi sistemi organizzativi nuovi, che prevedono la presa in carico dei pazienti a 360 gradi. Dobbiamo fare in modo che l’ospedale torni ad essere il posto riservato agli acuti, assistendo i malati cronici sul territorio. Per farlo, naturalmente, servono più investimenti e strutture. E’ una partita complessa, come si può comprendere da tutte queste sfaccettature. Eppure dobbiamo vincerla. L’alternativa è il collasso della sanità pubblica.