Il docente di Programmazione, Organizzazione e Gestione dell’Università di Siena: “Serve una svolta culturale da parte di medici e pazienti”
1. Dottor Vannucci, si parla molto di un’emergenza legata alle liste d’attesa e degli interventi che Governo nazionale e regioni dichiarano di mettere in atto, ma da più parti emergono dubbi sull’efficacia degli strumenti messi in campo.
Certo. Il problema è reale e grave, ma ciò che preoccupa è che si continua ad affrontarlo con soluzioni tecniche ed emergenziali, senza toccare le radici culturali e sistemiche del fenomeno. Si lavora sulla gestione delle agende, sulla digitalizzazione, sull’intramoenia, ma non si interviene davvero sulla domanda inappropriata, sulla cultura della medicina difensiva, sull’idea che ogni sintomo richieda subito un esame. Siamo immersi in un modello prestazionale e consumistico della sanità, che porta i cittadini ad aspettarsi tutto e subito, alimentati da media spesso allarmisti e da spinte di soggetti privati interessati a conquistare quote di mercato. Finché non si affronteranno questi aspetti, ogni intervento rischia di restare superficiale.
2. La piattaforma nazionale è stata presentata come svolta tecnologica. Non pensa che questo possa creare un’illusione di efficienza?
È una buona iniziativa in termini di trasparenza, ma da sola non basta. Rischia di diventare uno specchio che riflette la scarsità, anziché una soluzione. Sapere che ci sono sei mesi di attesa per una risonanza non riduce quei sei mesi. Senza aumentare l’offerta reale, rivedere i criteri di appropriatezza e soprattutto costruire una comunicazione pubblica più matura – che spieghi che attendere non significa necessariamente subire un danno – si rischia di accentuare la frustrazione. Serve un patto culturale tra cittadini, istituzioni e professionisti, non solo un’interfaccia digitale.
3. Si parla spesso di “emergenza liste d’attesa” come di un fatto oggettivo e incontestabile. È davvero così o c’è anche una componente narrativa da mettere in discussione?
È una domanda centrale. Le liste d’attesa esistono e vanno affrontate, ma l’etichetta di “emergenza” è diventata parte di una narrazione che non sempre è neutrale. Alimenta ansie, indirizza la domanda verso il privato e deresponsabilizza i decisori politici, che rincorrono la visibilità più che le soluzioni. Non esiste una politica pubblica che spieghi che non tutto ciò che si desidera subito è necessario. È questa assenza di una pedagogia della salute pubblica – e di una visione non prestazionale della medicina – a rendere il problema strutturale. E il rischio è che l’intera strategia si riduca a inseguire la domanda, senza mai chiedersi se sia giustificata.