«Dopo tanti anni che vivo a Firenze è questa la prima volta che vi espongo un gruppo di opere. Ho scelto per questa piccola mostra anche qualche mio lavoro ormai vecchio per poter dare, a chi si interessa della mia fatica, l’immagine di quanto io vado da anni cercando di raggiungere e chiarire […] In questi ultimi anni ho cercato soprattutto di intensificare e approfondire la mia pittura e renderla più immersa in una unità di luce. E’ questo ormai il mio problema centrale e non vi è in ciò assolutamente nulla di nuovo, è anzi il problema che ha sempre tormentato e tormenta ogni vero pittore […] Ormai la vita volge al suo termine, tuttavia, e questa è certo la mia vera forza, ogni volta che mi metto al lavoro, mi pare di scoprire continuamente qualcosa e come non passassero gli anni spero soltanto e sempre nel lavoro che verrà».
Felice Carena
Firenze, gennaio 1943
Dal 9 al 24 gennaio 1943 – mentre si razionavano i generi alimentari – si tenne alla Galleria d’arte Michelangiolo di Firenze, in piazza Antinori, una mostra personale di Felice Carena. Non così differentemente dalla mostra in corso a Palazzo Medici Riccardi, l’esposizione ruotava intorno ai temi del ritratto, del nudo femminile, della natura morta e del sacro; temi che, ora come allora, perpetuano il diligente esercizio di Carena, artista e filosofo – come ebbe a scrivere Giorgio de Chirico – incessantemente impegnato a indagare le forme della vita per tentare di coglierne i segreti. E se comprendere il mistero della vita è qualcosa che tuttora ci sfugge, la grandezza di Carena è stata quella di viverne appieno l’insondabile mistero e di restituirlo al nostro sguardo: che si tratti di una composizione di bagnanti o di un gruppo di conchiglie, il suo pennello intride la tela di tutte le ricerche, le domande, le visioni di un uomo che ha scandagliato le profondità dell’esistenza umana. Il sottotitolo scelto per la mostra attuale, «vivere nella pittura», riassume questo afflato: l’arte di Felice Carena è dimensione esistenziale e poetica, intrinseca nella vita stessa.
Le meravigliose pagine che Luigi Cavallo ed Elena Pontiggia, curatori della presente esposizione, hanno dedicato al pittore da molti anni a questa parte consentono di disegnare un quadro tanto ampio quanto accurato del suo percorso biografico e artistico: egli è figura chiave del Novecento italiano, interprete fecondo della temperie culturale fiorita nella nostra penisola nella prima metà del secolo, dalla nascita a Torino alla formazione all’Albertina, dal trasferimento a Roma alla Grande Guerra, dall’insegnamento fiorentino a Venezia, dove trascorre l’illuminata ultima stagione della sua vita e della sua carriera.
In particolare, la mostra di Palazzo Medici Riccardi approfondisce gli anni vissuti a Firenze, da dicembre 1924 – momento in cui viene chiamato a insegnare presso l’Accademia di Belle Arti – all’aprile 1945, quando si trasferisce a Venezia. Il ventennio che egli trascorre a Firenze è in effetti un ventennio cruciale, all’interno del quale si appuntano ben noti riconoscimenti: fra questi la personale alla Biennale di Venezia del 1926 e quella alla prima Quadriennale romana del 1931; il premio Carnegie di Pittsburgh del 1929; la nomina ad Accademico d’Italia e a Presidente dell’Accademia di Belle Arti nel 1933; il riconoscimento del Gran premio della pittura alla Biennale di Venezia, con una nuova personale nel 1940. Sono gli anni in cui dipinge sublimi capolavori: -basti ricordare Gli apostoli (1924), Donna nuda (Susanna) (1924), La scuola (1928) o Autoritratto nello studio (1932), presenti in mostra – e in cui prendono corpo le tappe salienti della sua vita professionale e personale. Ed è proprio nell’intreccio di queste due componenti che mi piace ricordare due luoghi chiave delle sue giornate fiorentine: l’Accademia di Belle Arti in piazza San Marco e Villa Malafrasca, la dimora di via Boccaccio 151, oggi fra le sedi dell’Istituto Universitario Europeo. Essi si pongono come i due poli, geografici e simbolici, della sua permanenza a Firenze: da un lato l’impegno non solo nel fare arte, ma nel condividerne le tecniche e – cosa assai più complicata – le ragioni e i fini; dall’altra la tessitura della propria rete familiare e amicale.
Da una parte, infatti, Carena è guidato dall’idea di essere maestro senza mezzi termini, accompagnando i giovani alla definizione della propria via, tanto estetica quanto etica: a questi aspetti era dedicato il prezioso omaggio che l’Accademia di Belle Arti di Firenze ha riservato fra ottobre e novembre alla sua figura, tanto rilevante per la storia dell’istituto.
D’altra parte, egli coltiva a Firenze la sua intima rete di affetti e di legami: il pittore rivolge più volte lo sguardo su se stesso, sulla moglie Mariuccia Chessa e sulla figlia Donatella, in questa mostra presenti grazie ai generosi prestiti della famiglia; e Villa Malafrasca, adagiata fra le colline fiesolane, si pone in tal senso come cornice ideale. E’ con quel dolce paesaggio negli occhi, forse, che Felice Carena così si presentava nel catalogo della prima Quadriennale romana del 1931: «vissi la guerra intensamente vicino al mio popolo, imparando più che in ogni accademia o scuola. Ritornai al lavoro più sicuro e sereno e da allora la mia pittura fu più personale e meno vuota di poesia e di vita; e nel 1926 raccolsi a Venezia il lavoro di quegli anni di intensa attività. Molto, molto ancora dovrei fare per sfrondare il mio lavoro da cose che sento caduche e vuote. Firenze dove vivo da cinque anni ed insegno all’accademia; Firenze colla sua tersa e nitida atmosfera mi ha insegnato come nella semplicità asciutta e solenne ci sia più verità che in ogni contorcimento ed esagerata espressione».
Ancora una volta è la verità a essere il nocciolo dell’indagine, dell’impegno, della tensione; una verità che Carena intravede fra le vie, le architetture e gli scorci fiorentini, che coglie nelle opere dei grandi maestri toscani – Giotto, Masaccio, Piero della Francesca – e che indaga sulle proprie tele. E’ questa la ricerca essenziale di Carena, alimentata dalla fede e nutrita dal «desiderio di arrivare, finché è possibile, al fondo delle cose, o almeno contentarsi delle apparenze più grate agli occhi». Il suo magistero estetico, che modula il suo linguaggio assimilando tanto l’esperienza della classicità – dai primitivi al Seicento – quanto le suggestioni della modernità, esprime non tanto una meta raggiunta o un altrove ideale, quanto la profonda tensione verso quel sogno tanto bello da sembrare vero: ed è proprio questo a renderle grandi opere.
E’ così che Felice Carena, l’artista-filosofo, offre al suo e al nostro occhio, al suo e al nostro spirito qualcosa che ci appartiene e che nello stesso tempo ci sfugge, che ci attrae e che nello stesso tempo sentiamo di abitare, nell’insolubile e irrinunciabile quesito intorno all’esistenza: «perché tutta l’arte, quando è arte, è realismo magico e metafisica».
Il testo sintetizza i contenuti del contributo stilato dall’autrice per il catalogo della mostra (Edifir edizioni).
Felice Carena. Vivere nella pittura
fino al 16 febbraio 2025
Palazzo Medici Riccardi, Firenze
promossa dalla Città Metropolitana di Firenze
realizzata da Fondazione MUS.E
da un’idea di Magda Grifò
con il coordinamento scientifico di Valentina Zucchi
a cura di Luigi Cavallo ed Elena Pontiggia